Come produrre musica elettronica: le basi

Come produrre musica elettronica: le basi

Questo è il primo di una serie di articoli che vuole dare una base più “tecnica” per comprendere la produzione musicale e insegnare come produrre musica elettronica dalla A alla Z. Gli articoli rappresentano una collaborazione con Mario Inghes, Apple Certified Instructor, mix / master engineer, produttore e proprietario dello studio Analog Arts.

Incominciamo!

Il primo apparecchio in grado sia di registrare che di riprodurre suoni fu il cilindro fonografico di Edison, brevettato nel 1878. Si tratta di un sistema di incisione meccanica di solchi su un cilindro di cera, praticata mediante una puntina che, solidale a una membrana messa in movimento dalle variazioni di pressione sonora, seguiva l’andamento di queste variazioni scalfendo il cilindro (che nel frattempo doveva esser fatto ruotare con una manovella).

La riproduzione funzionava nel modo inverso: il cilindro veniva fatto ruotare e la puntina ne seguiva i solchi trasmettendo il movimento alla membrana, che causava variazioni di pressione sonora nell’aria così come fa un altoparlante.

La nascita dell’industria musicale avviene qui, ma esplode circa vent’anni dopo con l’avvento dei dischi per fonografo e con la decisione delle case discografiche di produrre e commercializzare dischi che andassero a una velocità nominale universalmente accettata di 78 giri al minuto.

Nel secolo successivo, la magia della registrazione, iniziata come un processo prettamente meccanico, continua la sua crescita beneficiando delle nuove tecnologie e dell’elettronica, in un susseguirsi di innovazioni e sperimentazioni di nuovi formati, tra cui il leggendario nastro magnetico, alla base di quasi tutte le registrazioni commerciali dal 1950 agli anni 80, e in voga ancora oggi tra i fruitori di musica underground e tra alcune categorie di addetti ai lavori.

Oggi disponiamo della più avanzata tecnologia digitale, i cui vantaggi hanno rivoluzionato (e continuano a farlo quotidianamente) l’industria musicale, cinematografica e televisiva e fortemente caratterizzato il sound e l’espressività di tutti i musicisti, nonché il gusto e le volontà di molti di essi.

La riprova di quanto appena detto è che oggi, quando si parla di mixaggio a un musicista, la prima immagine che gli viene in mente non è più quella di un mixer, ma quella di un sound engineer con gli occhi rivolti al computer, il cui video mostra di solito una serie di “tracce”.

Quelle che sto per presentarvi sono le principali caratteristiche comuni a tutte le “DAW” (Digital Audio Workstation) o brevemente “programmi per fare musica”. Esistono decine di “DAW”, tutte diverse e ciascuna ottimizzata per uno scopo o per un altro, ma TUTTE condividono le caratteristiche che seguono. Vorrei ricordare che non esiste una DAW migliore di un’altra, se non unicamente in relazione alle proprie necessità professionali, artistiche e tecniche.

L’immagine che segue è una tipica rappresentazione dell’ambiente di lavoro “vista arrangiamento all’interno di una DAW… capiamoci qualcosa:

  • La colonna a sinistra è la “track list” e suddivide il “workspace”, situato a destra, in spazi orizzontali detti “tracce”, che ospitano le “regioni”.
  • Le “regioni” sono il contenuto, audio oppure MIDI, delle “tracce”, e mostrano una rappresentazione grafica di tipo “waveform” nel caso il contenuto sia audio, o di tipo “event” nel caso il contenuto sia MIDI. Come si evince dall’immagine è possibile, tra le varie opzioni a disposizione, personalizzarne anche il nome e il colore allo scopo di semplificare la distinzione e di rendere l’area di lavoro più ordinata e piacevole.
  • La “track list” ci mostra la lista delle tracce che compongono il brano, suddivise per numero e nome, più alcuni controlli che sono personalizzabili in base alle necessità e al nostro metodo di lavoro, o “workflow”: nell’immagine sopra sono attivi soltanto i pulsanti di Mute (M), Solo (S), Record enable (R) e Input monitoring (I).
  • Lo spazio a destra della “track list” è detto “workspace”, ed è l’area che ospita l’arrangiamento del nostro brano; si chiama così perché nel processo di produzione di un brano passeremo la maggior parte del tempo a lavorare in quest’area, svolgendo mansioni sulle “regioni”.
  • Nella parte alta del “workspace” troviamo il “ruler”, un righello le cui suddivisioni formano la “griglia temporale” che scandisce l’arrangiamento in battute o in divisioni più brevi: il “ruler” può dunque essere personalizzato, e sempre si adatta ai “BPM” del pezzo.
  • La riga bianca verticale, che nell’immagine sopra è situata poco dopo la battuta 41, si chiama “playhead”, o testina; nei registratori a nastro la testina rimane ferma, mentre il nastro si muove su di essa affinché ne sia riprodotto il contenuto. Nelle “DAW” è invece la testina virtuale a muoversi sul contenuto audio, ma la logica è la stessa: nel suo avanzare verso destra, il “playhead” intercetta le “regioni” e le riproduce; nel software che ho utilizzato in immagine (Logic Pro X), quando stiamo registrando, la testina di riproduzione diventa da bianca a rossa, a segnalare che si è trasformata in una testina di registrazione.
  • La testina o “playhead” risponde ai comandi di “transport”, comuni a tutti i registratori:

(In alto: Teac A-150 del 1978; in basso a destra ReVox B77 mk1 S2/HS, in basso a sinistra Logic Pro X – fonte: Studio Analog Arts)

Abbiamo appena analizzato gli elementi principali che compongono la “vista arrangiamento” di una “DAW”, mettendo in rilievo anche una certa analogia fra la “transport bar” virtuale e i controlli di “transport” di un qualsiasi registratore.

Allo stesso modo, la “vista mixer” di una “DAW” ricalca, con un’interfaccia virtuale molto intuitiva, versatile e dalle potenzialità pressoché illimitate, i classici mixer analogici, mettendoci a disposizione tutte le funzionalità di un vero banco mixer e anche di più: è infatti possibile disporre a piacimento di canali audio costituiti da insert, mandate, controlli di pan e volume, e funzioni di raggruppamento e automazione per ciascuna traccia:

(A sinistra: vista mixer di Logic Pro X, a destra una serie di moduli rack e banco mixer analogici – fonte: Studio Analog Arts)

Ciascun canale, o meglio “channel strip”, visibile nella parte sinistra dell’immagine, si sviluppa verticalmente come in un vero banco mixer e termina in basso con un fader, ma ha in più, nella parte superiore, delle caselle rettangolari, strutturate in un modo che ricorda molto l’impostazione dei classici rack presenti negli studi professionali (vedi rack a destra dell’immagine); all’interno di queste caselle è possibile inserire, con un semplice click, ogni sorta di “plug-in”, ossia ogni sorta di effetto che, similmente ai veri moduli rack, si interpone nel percorso del segnale, alterandolo in qualche modo.

Cliccando su una delle caselle in insert, si apre il modulo corrispondente, e possiamo visualizzarne e cambiarne i parametri di intervento attraverso degli specifici controlli; in questo caso abbiamo aperto un compressore di dinamica sulla traccia “Audio 1”, che in channel strip ospita appunto un modulo con la dicitura “Comp”:

Nell’immagine che segue, confrontiamo i controlli principali del compressore virtuale appena aperto, con i controlli principali di un compressore analogico, che, in questo caso, è un Alesis 3630:

(A sinistra il dettaglio di un Alesis 3630, a destra uno dei compressori software presenti in Logic Pro X – fonte: Studio Analog Arts)

Se lo scopo del mixaggio è miscelare un certo numero di suoni tra voci e strumenti, affinché coesistano in un amalgama armonioso e accattivante, uno dei possibili approcci a questo risultato consiste in primo luogo nell’imbrigliare, con un “equalizzatore”, ciascun suono nella gamma di frequenze che risulta più funzionale sia al suono stesso, che all’intero arrangiamento, processandone poi l’escursione dinamica per mezzo di compressori/limiter.

Chiudiamo ora un istante gli occhi e immaginiamo di fronte a noi uno spazio…

Possiamo (dovremmo) virtualmente collocare ciascun suono in questo spazio, usando i controlli di volume e di panning allo scopo di creare un bilanciamento fra gli strumenti e dar loro una direzionalità, e sfruttando poi mandate ausiliarie, o “aux sends”, ad effetti d’ambiente e di modulazione per regalare anche una profondità, intesa come senso di tridimensionalità e di movimento al brano che stiamo scolpendo.

Una potentissima arma per creare movimento, e quindi dinamica, cambiamenti che possono indurre tensione, attesa, suspense, sorpresa, o semplicemente dare vita al pezzo, sono le automazioni:

(Automation View attiva sulle tracce “RUMORI” e “VOX” in un progetto di Stem Mastering – fonte: Studio Analog Arts)

La “vista automazioni” è una particolare estensione della vista arrangiamento che consente di programmare il movimento automatico di un knob o di qualsiasi altro controllo appartenente a un plug-in, al mixer, o a ciascuna funzione che la “DAW” consente di modificare: si sceglie un parametro e se ne “mappa” il comportamento disegnando un grafico direttamente sulle “regioni”, il quale verrà poi letto dal “playhead” e interpretato dalla “DAW”.

In fase di mixing è necessario saper immaginare come il suono viene percepito da un’altra persona; poiché quello che sentiamo (“sentiamo” per quanto riguarda i sensi fisici e “sentiamo” per quanto riguarda l’emozione) comporta sempre anche delle implicazioni psicologiche, è della massima importanza capire come come gli stimoli sonori vengono percepiti dal nostro cervello.

La produzione musicale è dunque un’arte completa, che richiede la padronanza di un gran bagaglio tecnico, ma anche un nitido, spiccato senso estetico-musicale che in questo lavoro sopraggiunge solo dopo anni di esperienza.

Tuttavia, se è vero che anche il viaggio più lungo comincia con un passo, il primo passo per entrare nel mondo della produzione audio, al giorno d’oggi, è disporre di computer, di un paio di cuffie e di una “DAW”.

(di Mario Inghes – Studio Analog Arts)

Redazione

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